Se

Di giorno vado a caccia di banditi
Tra tutte quelle facce non ci sei
Sarà che sai nasconderti per bene
Sarà che non hai mai fatto del male

La Luna anche di giorno ha il suo colore
Un'oasi nel cielo più sereno
Sarà che ho la tempesta nelle vene
Sarà che non potrò donarti il mare

Se fossi lì...
Potrei toccare ancora le tue mani,
Sentirmi forse meno trasparente
Sentirmi meno invisibile

Nei sogni che continuo ad occhi aperti
Ti trovo sempre un passo avanti a me
Risento il tuo profumo e i tuoi capelli
Mi sfuggi sempre irraggiungibile

Non spegnere la luce questa notte
Restiamo svegli a farci le domande
Se vuoi tornare sotto le coperte
Se vuoi tornare a mordermi le spalle

Se fossi lì...
In quella stanza accanto alla tua mente
Saprei senz'altro farti ridere
Saprei sfidare le tue regole

Se fossi lì...
A un battito di cuore dal mio petto
Sentirmi quasi invincibile
Sentirmi meno invisibile

Andiamo insieme a caccia di banditi
Cambiamo anche alla Luna il suo colore
Mischiamo la tempesta nelle vene
Restiamo svegli a farci le domande

Non spegnere la luce questa notte...

Non spegnere la luce questa notte...

Se fossi lì...
Nei posti dove sempre ti ho trovato
Sentirmi quasi invincibile
Sentirmi meno invisibile

Hemingway - La valle più bella del mondo

In Italia conobbi la guerra; quella che poi venne definita “Grande”. Un susseguirsi di infinite attese intervallate da attimi di paura e dolore.
In Italia conobbi Agnes; un incredibile miracolo credere che, tra fango e tormento, avrei potuto trovare l’amore di un angelo. I suoi occhi e le sue attenzioni placarono il mio animo turbolento, allontanandomi dalla polvere e dalla voglia di morire per qualcosa.

Non ho mai desiderato radici, pur concedendomi momenti di riposo per il corpo e la mente in luoghi straordinari.
Nel mio continuo girovagare ho conosciuto molte persone, ho stretto molte mani, baciato labbra. Spesso mi sono fermato, ma solo un istante, per poi ripartire.
Dopo la Grande Guerra, vidi molti altri scontri, non solo nelle trincee.
Fu con Mary che, dopo la fine di un’altra guerra, tornai in Italia; quasi a voler chiudere un ciclo iniziato anni prima. Volevo ritrovare la pace.

Qui imparai il valore di un maiale e di un sacco di grano. Imparai ad attendere senza motivo di rivalsa sul tempo trascorso; impensabile per uno come me.
Vidi volti segnati dal tempo, dalla polvere dei campi, dal gelo invernale, dalla guerra, ancora capaci di ridere e amare; occhi limpidi e profondi come un fiume che si insinua nell’anima, scavando sempre la stessa valle, a memoria, filo d’erba dopo filo d’erba, sasso per sasso.
Mi ritrovai nei luoghi in cui soldati tedeschi e partigiani si contendevano le più aspre vette o il ponte sul fiume costruito da chissà quale diavolo.
Dove più di duemila anni fa, i soldati di Annibale trovarono ristoro e, sulla via del ritorno, scelsero un nuovo futuro, lontano da casa, ma, come spesso accade per i colonizzatori, richiamando le loro origini, utilizzando nomi a loro familiari.
Trovai acque docili in cui pescare, tra curve che disegnano forme di animali e boschi infiniti che si muovono sinuosi e inesorabili a conquistare vecchi pascoli.

Fu in una tiepida sera che decidemmo di soggiornare presso l’unica osteria di un piccolo paesino chiamato Campi; un singolare borghetto formato da piccole corti.
Forse per la stanchezza accumulata nel viaggio, presi una sbornia prima del previsto e mi trascinai faticosamente lungo le scale fino al letto. Non ricordo molto altro, mentre il vociare della stanza inferiore si allontanava in un’eco confusa e il mio respiro si trasformava in un profondo russare.
Mi risvegliai che era ancora buio, stranamente lucido. Ecco cosa ricordo: in questi luoghi si dorme come bambini, privi di pensieri, per poi risvegliarsi completamente rinvigoriti in poco tempo.
Mary era accanto a me, dormiva profondamente.
Mi alzai e scesi le scale, attratto da un forte profumo di caffè. Entrai nella stanza principale, dove trovai un giovane ragazzo che correva verso la piccola caffettiera che stava gorgogliando sulla stufa.
Mi salutò con un breve gesto della mano e, in silenzio, mi indicò la caffettiera, in attesa di un mio cenno. Bevemmo il caffè insieme; sapeva di bruciato, ma servì a levarmi dalla bocca il gusto della sera prima.
Si chiamava Italo, era il figlio dell’oste; un giovane alto e smilzo, con le mani secche e callose come la pelle di struzzo conciata. Era di poche parole, ma estremamente gentile. Quel mattino si era alzato molto presto per andare sulla cima dell’Alfeo, il monte che sovrasta il paese fino a mille metri più in alto.
Avevo voglia di muovermi, così gli chiesi di poterlo seguire e, ovviamente, accettò. Corsi nella mia stanza e mi misi a frugare tra le cose di Mary. Trovai ciò che stavo cercando: la sua Argus C3. Lasciai un biglietto sopra la borsa, spiegando che avrei fatto un giro e sarei tornato presto.

La notte stava per finire, ma era ancora molto buio e la strada bianca delineava i suoi confini a fatica.
Il passo di Italo era svelto e, nelle prime salite, il mio fegato iniziò a farsi sentire sotto le costole, ricordandomi i miei vizi e imponendomi maggiore calma nello sforzo. Sentivo i polmoni stringersi in spasmi sempre più stretti; in quel momento odiai i troppi sigari fumati, sapendo che comunque, ben presto, mi sarei scordato nuovamente di certe controindicazioni del fumo.
Italo si accorse del mio affanno e moderò notevolmente il suo passo, senza farmi sentire troppo vecchio e lento.
La strada mutava continuamente, da salite impervie e ghiaiose a sentieri polverosi larghi per un solo uomo, fino ad aprirsi molte volte in campi ben delineati, dove il fieno era alto, per poi richiudersi in boschi di querce e noccioli selvatici.
Arrivammo in un prato, dove Italo si fermò per bere, porgendomi una borraccia d’acqua che io, ovviamente, avevo omesso di portare. Borbottai mortificato prima di bere, mentre lui chinò la testa e alzò le spalle in segno di cortesia. Ci guardammo intorno, le stelle in cielo iniziavano a sparire e il nero profondo del cielo si schiariva in un blu tenue; a est, la linea dei monti bordava l’orizzonte di rosa.
Senza parlare, Italo mi prese per un polso e mi tirò verso la selva poco più avanti, come a volermi portare in un posto segreto, al più presto, dove sarebbe accaduto qualcosa di lì a poco.

Tornammo nel buio, tra gli alberi. Sbattei le palpebre, strizzandole forte, cercando di abituare in fretta gli occhi alle nuove tenebre.
Ci fermammo in silenzio; Italo si sedette su una grossa pietra ricoperta di muschio, guardando le fitte chiome degli alberi, in silenzio, in attesa di trovare qualcosa. Fu in quella selva che vedemmo l’alba, ai piedi dell’ultima dorsale del Monte Alfeo.
Nel buio, tra gli alberi, si stagliavano lame di fuoco arancio che riscaldavano i tronchi umidi di quercia su cui si posavano. Era questo lo spettacolo imminente che cercava Italo. Restammo immobili, a bocca aperta. Ero ancora affannato, ma credo di aver trattenuto il fiato per qualche istante, rapito da quel momento.
Tra quelle luci incontrai gli occhi di un giovane capriolo, fermo, in attesa o forse anche lui ammaliato da quell’incredibile spettacolo. Ho fissato nella memoria quel momento; quell’istante in cui nessuno era preda o predatore, non si poteva pensare al pericolo; un unico momento privo di rumori, un’attesa immobile e piacevole.
Nello zaino avevo l’Argus C3 di Mary pronta all’uso; l’avevo portata proprio per fotografare qualcosa di straordinario, ma nulla mi distolse da quell’immagine; nulla mi fece pensare di immortalare quel momento. Quel quadro senza una cornice ben definita rimase mio, solo mio, per sempre.
Non so quanto tempo passò; secondi o minuti, poco importa. Il movimento di quelle luci sembrò accelerare, ampliando i suoi raggi e la loro intensità. La luce prese il sopravvento sulle tenebre.
Tra i primi cinguettii di uccelli, il capriolo si ridestò da quella pacifica pausa, scrollò la testa e sparì tra gli alberi in un lampo.

Anche Italo si destò, alzandosi in piedi, di nuovo pronto a proseguire verso la vetta.
Guardai la cima del monte appena fuori dalla selva, ancora molto in alto. Ero ancora euforico, ma definitivamente esausto. Lasciai proseguire Italo, preferendo un’onesta resa e mi incamminai sulla via del ritorno. Non potevo chiedere di più da quel giorno.

Scesi con calma lungo il percorso appena fatto. Arrivato all’osteria, trovai Mary, seduta su una panca a sorseggiare un caffè e fumare. Non dissi niente, mi avvicinai e la baciai sulla fronte, mi sedetti al suo fianco e le rubai qualche boccata di sigaretta. Respirai profondamente, cercando la conferma di non aver sognato.

Qui trovai ciò che trovarono i soldati di Annibale e tutti coloro che scappano da qualcosa. Trovai ciò che stavo cercando, trovai la pace.

Questa è ed è sempre stata la valle più bella del mondo.

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